Un giorno qualsiasi (ARIA)

Questo è un regalo per voi.

SE ABBATTETE I MONUMENTI, RISPARMIATE I PIEDISTALLI: POTRANNO SEMPRE SERVIRE




ACQUA


“Nessuno è più pericoloso di un ignorante attivo”.
Wolfgang Goethe



Scendi, scendi, scendi, scendi. Un passo, due, tre. Il campanello continuava a suonare come se nulla al mondo potesse farlo smettere. Qualcuno stava prepotentemente tenendo premuto il suo soave ditino sul tastino. Mi aggrappai alla maniglia ed aprii. Una donnina dall’aria fastidiosa sorrideva raggiante, nonostante la mia smorfia infastidita. Era bassetta, perlomeno rispetto a me, e prosperosa. Lunghi capelli scuri, raccolti in uno chignon tirato su alla bell’e meglio, una gonna bianca stile gitana e una maglia celeste dalle ampie maniche. Allungò un volantino colorato, cacciandomelo tra le mani, senza che avessi il tempo di reagire. Aggrottai la fronte cercando di metterla in soggezione. Niente. Il sorriso persisteva sul suo volto, come una mosca che continua a ronzarti intorno alla testa. Fui tentato di tirarle una sberla per vedere se perlomeno l’avrebbe schivata, ma prima che l’informazione potesse passare dal cervello ai muscoli addormentati, lei parlò.
“Buongiorno!” trillò soave, trapanandomi le tempie.
Non risposi, mi limitai a fissarla in cagnesco.
“Sono qui per pubblicizzare la nuova caffetteria all’angolo” spiegò solare. Indicò il foglio accartocciato nel mio pungo chiuso. “Quello è un buono per una colazione gratis, sarà sufficiente presentarlo alla cassa e potrà usufruirne, tutte le informazioni sul locale sono stampate sul retro. Venga a trovarci!”
“Hm” le concessi soltanto, liberando uno sbadiglio che premeva per uscire. L’unico neurone funzionante a quell’ora mi aveva avvertito che c’era da mangiare gratis, indi non dovevo picchiarla.
Il suo sorriso si allargò, se possibile, e d’improvviso mi ricordò il vecchio. La fisionomia era diversa, ma aveva la stessa faccia da sberle. Trattenni l’impulso di insultarla come facevo con lui. Ad ogni modo la tecnica non aveva mai funzionato. Questa qui è gente coriacea e farli smettere di sorridere è una sfida troppo impegnativa per uno che si è appena svegliato. Ofelia li chiamava “stupidi e felici” e non c’è dubbio che quella sia l’impressione che danno. Sbuffai. La donnina continuava a fissarmi. Mi chiesi perché non se ne andasse. Cos’è? Voleva anche il saluto? Guardandola meglio, notai che doveva avere soltanto qualche anno in più della mia piccola. Tese la mano. Come volevasi dimostrare. La squadrai controvoglia. Non mossi muscolo, ma lei si allungò fino a prendere una delle mie e la strinse calorosamente.
“È stato un piacere, signor Della Notte!” esclamò pimpante, agitandola ancora. “Buona giornata.”
Poverina, avrei dovuto dirle che il nome sulla targhetta non era il mio. Edoardo non c’era. Anzi non abitava neppure lì. Anche se la casa era sua, l’aveva lasciata a me e ad Ofelia. Quel foglietto inutile non gli sarebbe mai arrivato. Mi sfuggì un sorriso ironico. Se solo l’avesse visto almeno una volta, avrebbe capito quanto fosse clamoroso l’errore d’identità.
Lei si illuminò ancor più e agitando la mano in aria, se andò lungo il corridoio. Richiusi la porta immediatamente. Sbuffai e mi trascinai verso il letto.
Ofelia si affacciò alla porta della sua camera. La faccia da bambina imbronciata, gli occhi gonfi, pieni di nero colato. Pareva l’avessero picchiata per tutta la notte.
“Chi era?” domandò assonnata.
Le lanciai il foglio appallottolato in piena faccia e tirai dritto. Sentii che lo raccoglieva da terra e il suo “Ah” disinteressato.
“Non buttarlo” la ammonii. “Più tardi vado a battere cassa.” Mi gettai a peso morto sul letto e nel sonno.

***


FUOCO


“L’uomo veramente libero è colui che sa rifiutare un invito a pranzo senza inventare una scusa.”
Jules Renard



Le telecamere a circuito chiuso rimandavano l’immagine di una donna piuttosto giovane. Alle sue spalle un furgone bianco. Sorrideva innocente e tra le braccia sorreggeva un pacco di fogli stampati. Difficile credere che qualcuno si potesse spingere fin lì soltanto per consegnare dei volantini. Come poteva non solleticare la mia morbosa curiosità? Sembrava innocua, d’altra parte se non lo fosse stata avrebbe presto scoperto che cosa significasse la parola Inferno. Era stata fortunata a trovarmi in casa, giacché non c’ero quasi mai a causa del lavoro. Premetti il testo d’apertura del cancello e la osservai risalire al posto di guida. Intravidi una sagoma affianco a lei, ma era sommersa dai volantini disordinati. Uscii dalla stanza della sorveglianza e attraversando la sala dei ricevimenti, mi diressi al portone principale. Aprii con discrezione e le sorrisi cordiale ma distaccato.
“Buongiorno” esordii cortese “Desidera?”
Sorrise raggiante. “Buongiorno a lei!” Mi tese il foglietto colorato, che presi con un movimento controllato. “Sono qui per promuovere la nuova pasticceria del paese” spiegò solerte. Indicò il volantino. “Questo è un buono per una consumazione omaggio, che sarà sufficiente presentare alla cassa. Speriamo che verrà a trovarci al più presto.”
“Non mancherò” risposi con un sorriso magnetico. Sapevo che difficilmente una donna sarebbe stata in grado di resistere al mio fascino oscuro.
A quanto ne sapevo l’unica pasticceria della zona, che peraltro distava almeno una ventina di chilometri, aveva la stessa gestione almeno da trent’anni. Il paese è piccolo la gente mormora. Di certo avrei saputo se qualcosa fosse cambiato di recente. Continuai a guardarla in tutta tranquillità e le sorrisi nuovamente.
“Tutta questa strada, solo per consegnare un volantino” considerai casuale. “Non vorresti entrare a bere qualcosa?” chiesi, sfoggiando tutto il mio carisma.
Mi guardò adorante, ma non si mosse. Si morse il labbro e scosse la testa incerta. Il sorriso sul suo volto vacillò un istante, come se qualcosa l’avesse spaventata, ma subito si riprese.
“La ringrazio, signor Della Notte, è molto gentile da parte sua, ma il dovere mi chiama” si giustificò.
Non potevo credere ai miei occhi. Una donna che mi rifiutava? Non era mai successo prima. Normalmente ero io a dovermi nascondere. Passai una mano tra i folti capelli scuri, risistemando le lunghe ciocche che erano scivolate oltre le spalle e sorrisi magnetico.
“Sarà per la prossima volta, mi auguro” considerai gentile, ma era più un ordine che un consiglio.
Le concessi un ultimo sguardo e mi inchinai, posando un bacio lieve sul dorso della mano che mi aveva teso. Arrossì vistosamente e mormorò qualche altra scusa per aver declinato la mia offerta, ma non la stavo più ascoltando. La mia attenzione era stata involontariamente calamitata dalla sua scollatura esagerata. Cercai di non farle notare dove il mio sguardo si fosse posato, ma mi accorsi immediatamente che potevo permettermelo senza troppi problemi, dato che ancora imbarazzata indugiava a fissarsi le punte dei piedi. Mi sfuggì un sorriso sadico.
“La ringrazio per la premura…Signorina?” chiesi casuale.
“P – Pietro” balbettò incerta. “Abbimi Pietro.”
Trattenni a fatica una risata. La mia abilità innata nel controllare i miei comportamenti, mi permise di mantenere un’espressione compassata e gentile. “Singolare…” considerai “E quale sarebbe il nome? Abbimi, immagino” aggiunsi dubbioso. “Il suo volto non è certo adatto alle fattezze che evoca il nome Pietro.”
“A – A – A dire il vero è Pietro il nome…” rispose sempre più imbarazzata.
“Oh” mi sfuggì. Riportai lo sguardo sulla scollatura. Che fosse? No, impossibile. Edoardo non ha mai scambiato dei seni finti per veri, ne andrebbe del suo buon nome. “Quale crudeltà” mormorai fingendomi partecipe del suo disagio. “Ad ogni modo una fanciulla così bella e femminile come lei può permettersi tranquillamente di portare un simile nome, senza che ciò possa danneggiare in alcun modo la sua immagine.” Mi avvicinai un poco permettendole di perdersi nei miei occhi verdi. Una brezza leggera mi scompigliò i lunghi capelli, insinuandosi nel portone semiaperto. Portai le dita affusolate a risistemarli.
Pietro mi osservò rapita.
Dubitavo che si trattasse del suo vero nome e la mia curiosità ormai bruciava per essere soddisfatta. Senza dimenticare che ho sempre adorato sedurre le donne, per quanto poi tenda a non soddisfarle. Il corteggiamento mi eccita, tanto quanto mi annoia la riuscita. È dura la vita per quelli come me. Le donne cadono subito ai nostri piedi e così finisce che non sappiamo mai che farcene. Aria è l’unica ad avermi dato la soddisfazione di resistermi. Neppure troppo in verità, ma è stata davvero la resistenza più lunga che abbia mai sperimentato. A volte mi pare incredibile di come nonostante la sua scarsa intelligenza sia riuscita a tenermi testa, d’altra parte anche Ael, pur non avendo idee brillanti tanto quanto il suo sorriso, ci riesce.
Per un istante l’immagine di Michele si delineò nella mia mente. Pensai a come avrebbe reagito di fronte a questa strana ragazza, se le avrebbe riso in piena faccia o l’avrebbe presa a testate, infastidito dal suo sorriso innocente, o stupido come avrebbe detto lui. La osservai mentre risaliva sul rottame sgangherato che l’aveva condotta per quelle sperdute stradine di campagna. Il motore brontolò e singhiozzò un poco prima di avviarsi per bene. scrutai oltre il vetro appannato. L’autunno non mi permetteva di vedere perfettamente all’interno, ma ebbi la conferma che ci fosse qualcun altro a bordo. Ad occhio e croce doveva essere anche quella una donna. Un sorriso maligno mi affiorò alle labbra all’idea che forse avrei dovuto rispolverare le mie abilità per una doppia conquista. Non appena il furgone fu sparito all’orizzonte, mi concessi di ammirare la bellezza del bosco che circondava la mia tenuta. Rientrai con la convinzione che nel pomeriggio sarei andato a controllare se il volantino dicesse il vero. Ne dubitavo, quanto invece ero certo che quell’incontro non fosse stato affatto casuale.

***


TENEBRA


"Papà, pensi che riuscirò nella vita?
“Sì, se non ti lasci influenzare da ciò che pensi, dici e fai.”
Felice Andreasi



“Sì, dimmi pure Celeste” concessi, sollevando lo sguardo dalle annotazioni di borsa su cui stavo lavorando. Le statistiche non erano un’attività che trovassi particolarmente stimolante, ma sono sempre stato dell’idea che sia sempre meglio controllare il lavoro dei propri dipendenti per essere certi che sia ben svolto. Ad ogni modo una piccola distrazione non mi dispiaceva affatto, magari ne avrei approfittato per farmi servire un caffè forte o un buon calice di vino.
La governante sorrise con una nota di dolcezza, come solo lei sapeva fare guardandomi. Nonostante sia l’amante di mio padre, non ho mai dubitato che mi ami come un figlio.
“C’è una signorina che l’attende in sala” spiegò tranquilla. “Me ne sarei occupata personalmente, ma ho pensato che una piccola distrazione non le sarebbe dispiaciuta.”
La guardai lievemente accigliato.
Sorrise ancora, sostenendo lo sguardo e mi rilassai.
“Va bene, la riceverò subito” decisi, riassettando i fogli. “Immagino che non sia nulla di importante.”
“No” rivelò divertita. “È qui per offrirle la colazione.”
Sollevai un sopracciglio. Inutile chiederle spiegazioni perché già si stava congedando per incamminarsi verso la sala. Mi alzai controvoglia, inarcando la schiena per sgranchirmi le ossa, appesantite dal troppo lavoro. Dovevo ammettere che quando Ofelia non c’era la vita diventava alquanto monotona. Eppure quella ragazzina era così altalenante da risultare fastidiosa per uno come me. Mal sopportavo il suo caotico modo di comportarsi, ma per quanto fossi riuscito ad educarla, tanto da permetterle di porsi adeguatamente nelle situazioni formali, nella vita privata continuava a muoversi come un ciclone impazzito e con la stessa finezza di un ubriaco in una taverna. Scacciai dalla mente il pensiero che potesse mancarmi e sorrisi educato ma glaciale, entrando nella stanza.
Il mio ospite era una ragazza, cui avrei dato senza dubbio non meno di ventitré anni. Sedeva su una delle poltroncine di velluto bordò; mora, capelli lunghi, occhi scuri. Portava una gonna bianca lunga fino alla caviglia ed una maglia di lino, celeste e dalle larghe maniche. Il tessuto era scivolato a scoprire la spalla destra e la procace scollatura. Era semplice e visibilmente inadatta ad ambienti quali quelli che io frequentavo. Non appena mi vide si alzò in piedi.
“Buongiorno” esordì leggermente intimidita, ma sorrideva in quel modo.
Per un attimo temetti che fosse venuta a portarmi notizie di Ael o di Aria, tanta era la somiglianza nell’abbigliamento e nei modi, ma ero certo che non avrebbero avuto bisogno di intermediari se avessero deciso di importunarmi.
“Salve” risposi distaccato. “Desidera?”
Mi mostrò un volantino, ma non mi avvicinai e le indicai il tavolino che aveva accanto. Pubblicizzava una caffetteria di Milano. Perché spingersi sino in Brianza? I proprietari dovevano avere soldi da buttare o essere assolutamente inabili alla promozione per fare una cosa tanto stupida. La guardai in silenzio.
“Si tratta di un buono per una consumazione gratuita nella caffetteria La Lune et le Soleil, potrà usufruirne semplicemente presentandolo alla cassa; la sua validità è di un mese dalla data di apertura, le indicazioni per raggiungere il locale sono sul retro” spiegò professionale.
“Patetico” mi sfuggì dalle labbra. La guardai indolente, senza scusarmi, né avvicinarmi.
Abbassò gli occhi a disagio. Credetti che fosse consapevole di avermi fatto una proposta fuori luogo e di quanto potesse essere sgradito il suo gesto, ma quando rialzò la testa sorrideva tranquilla.
“Il locale è molto bello e saremmo lieti di averla come nostro ospite” aggiunse con assoluto candore.
Inconcepibile, mi trattava come un qualsiasi altro cliente. Le lanciai uno sguardo di rimprovero, ma non vacillò, al contrario il sorriso si ampliò. Cominciava a darmi lo stesso fastidio fisico di quello di Ael.
“Sono consapevole di chi lei sia e di quanto la sua presenza potrebbe giovare all’immagine del locale” insistette sicura di sé, come qualcuno che non ha niente di cui preoccuparsi a parte il proprio obbiettivo.
Pareva quasi che avesse imparato a memoria un copione, che si aspettasse che fosse necessario adularmi per ottenere qualcosa da me. Mi avvicinai con calcolata lentezza al tavolo e posai lo sguardo sul volantino colorato. In basso a destra, stampati in caratteri eleganti, c’erano i versi di una poesia che non potevo non conoscere.
Viens, mon beaux chat, sur mon cœur amoureux;
Retiens le griffes de ta patte,
Et laisse moi me plonger dans tes beaux yeux […]
Fui costretto a riconoscere l’esistenza di due possibilità: o l’autore del volantino era sfacciatamente fortunato e il caso aveva voluto che scegliesse di Baudelaire la mia preferita, oppure era dannatamente abile, cioè abbastanza informato sul mio conto e determinato da permettersi la sfacciataggine di lusingarmi a tal punto.
“Chi si è occupato della pubblicità?” domandai, celando il mio interessamento dietro il distacco del tono.
I suoi occhi si mossero inquieti. “Monkey D” rispose laconica.
“È un nome d’arte immagino” considerai annoiato. “Gli o le faccia i miei complimenti.”
Annuì e le si illuminarono gli occhi. Mi resi conto che avevo sbagliato a concederle una seppur minima gratificazione. Quelli come lei sono fin troppo inclini all’euforia, cosa che a me da la nausea.
“Se non c’è altro, dovrei tornare alle mie abituali occupazioni” tagliai corto, indicandole la porta con un gesto elegante.
Mi guardò incerta.
“Certo, mi scuso per il tempo che le ho rubato e mi auguro che accetterà il nostro invito.”
Le sorrisi formale e posando la mano sul petto, feci un piccolo inchino. Celeste le si fece accanto per accompagnarla alla porta ed io girai sui tacchi per tornare al mio studio. Mi specchiai nel vetro dei quadri lungo il corridoio. Ero anche più pallido del solito. Avevo senza dubbio bisogno di un po’ di riposo. Mi lasciai ricadere sulla poltrona di pelle, tirando indietro i capelli scuri per scoprirmi la fronte. Considerai che Edoardo avrebbe ceduto all’istante leggendo quei versi, lui che amava così tanto il tè e l’autunno. Dopo qualche minuto la governate mi raggiunse. Posò il foglio sulla scrivania laccata in mogano scuro e mi concesse uno sguardo bonario.
“Credo che una piccola distrazione le gioverebbe” disse piano, facendo attenzione a non indispormi.
“Avevi ragione” considerai pacato. “La ragazza mi piace.”
Sorrise comprensiva. “Quest’ambiente è troppo freddo per chiunque, Louis, è naturale che tu abbia bisogno di un po’ di semplicità e calore ogni tanto.”
Scossi la testa e sbuffai contrariato. “D’accordo, ci andrò.”
Mi mancava Ofelia. A dire il vero, mi mancavano tutti loro, soprattutto Ael.

***


LUCE


“A che cosa pensi?”
“A niente. E tu?”
“A niente.”
“Siamo fatti per interderci.”
Wolinski



Tre colpi decisi vibrarono sulla porta. L’aver fatto togliere il campanello era un buon metodo per aiutare la fiducia in se stessi dei visitatori. Inoltre migliorava anche i miei giorni di riposo, risparmiandomi da quel molesto ed innaturale rumore. Mi alzai soddisfatto del suono basso e legnoso.
Sulla soglia mi ritrovai di fronte una ragazza con un bel sorriso solare. Un viso pieno e in salute, labbra carnose e un colorito vitale. I capelli erano lucidi e scuri, lunghi e forti. Non mi soffermai sull’abbigliamento, ma era abbastanza chiaro e leggero da rendermelo piacevole alla vista. Mi scostai, facendole cenno di accomodarsi. Non è bello lasciare la gente in piedi nel corridoio. L’ospitalità rende il mondo un posto migliore. Mi guardò esitante. Ricordai di come la mia espressione severa, pur non essendo minimamente ostile, mettesse a disagio le persone che mi circondavano. Sorrisi per tranquillizzarla e le feci nuovamente cenno di entrare. Ricambiò il gesto e mi precedette all’interno. Richiusi la porta alle mie spalle.
“Buongiorno” esordì gentile, allungandomi un foglio colorato.
Lo presi e lessi velocemente le informazioni che conteneva. Era un buono omaggio per una caffetteria appena aperta. Si trovava nella mia zona e ci sarei passato compiendo il solito percorso in bici, per concludere la pausa pranzo. Il nome mi fece sorridere. Avrei anche potuto fermarmi a prendere un orzo o una spremuta l’indomani mattina. Se avessero avuto anche frutta o brioche integrali appena fatte, sarebbe stata una buona colazione.
“Grazie per aver bussato alla mia porta” dissi precedendola.
“Oh, di nulla” replicò confusa ma ancora sorridente. “Le informazioni per raggiungere…”
Sollevai una mano in aria per fermarla. “Sì, l’ho notato, è qui vicino” considerai sicuro.
Mi avvicinai al frigo e lo aprii. “Si accomodi, come se fosse casa sua” le dissi e presi la bottiglia di succo al mirtillo, 100% naturale e senza zuccheri aggiunti. Ne riempii un bicchiere e glielo porsi. “Non faccia complimenti” aggiunsi “Ha gli occhi stanchi, le farà bene.”
Lo prese e notai che cercava di intravedere il proprio riflesso sulla superficie di vetro del tavolo. Forse l’avevo messa a disagio. Le donne sono sempre state delle creature troppo complicate per me.
Resto dell’idea che “Hai le occhiaie” non significhi “Sei brutta”, che “Sei brutta” non significhi “Fai schifo”, che “Fai schifo” non significhi “Sei grassa” o “Hai le tette piccole” o “Sei pelosa”. Come se le differenze fisiche invece che renderci unici, ci trasformassero in brutte persone. Ael non considererebbe mai qualcuno sulla base di simili dettagli. Sarebbe come giudicare la bontà di un frutto dalla lucidità della buccia. Infatti il mio frutto preferito è sempre stato il kiwi.
“Questo buono vale per una sola persona?” domandai, prendendo posto sul divano chiaro.
Sussultò, sorpresa dalla mia improvvisa curiosità.
“Sì…” rispose incerta, ma sfilò un altro foglio dalla borsa. “Però dato che sei stato così gentile, posso dartene un altro.” Sorrise soddisfatta del suo gesto. “Se vuoi portarci qualcuno, dovrai darlo all’altra persona, altrimenti puoi provare ad usarli a distanza di tempo, così il titolare non ti riconosce…” mi spiegò premurosa e strizzò l’occhio con complicità.
“No, non ho intenzione di ingannare nessuno” decretai.
Abbassò il capo con aria colpevole. Era ancora in piedi al centro della stanza. Per quanto ci provassi non mi riusciva proprio di mettere le persone a proprio agio. Sospirai appena e mi rialzai, avvicinandola. Alzò la testa, visibilmente intenzionata a congedarsi. Presi il foglio dalle sue mani e lo infilai nuovamente nella borsa. Mi guardò confusa, temendo che la stessi punendo per ciò che aveva detto. Sorrisi intenerito.
“Lo tenga lei” spiegai tranquillo “Non si preoccupi, so che le sue intenzioni erano buone e non conoscendo le mie è stata gentile a spiegarmi entrambe le soluzioni per utilizzarlo.”
Il suo sguardo si ammorbidì e le spalle si rilassarono, anche il volto li seguì regalandomi un nuovo sorriso, che era impossibile non riconoscere. Per quanta strada avesse ancora davanti a sé, era raro trovare qualcuno che l’avesse imboccata così bene da abbracciare la propria energia, fino a farla trasparire così candidamente.
“Però può usarlo nel modo che preferisce, non voglio che ci rinunci a causa mia” si affrettò a spiegare.
Allungai una mano verso di lei. “Mi chiami Gabriele” dissi, aspettando che la stringesse “E voglio che lo tenga lei, perché vorrei che fosse lei ad accompagnarmi.”
Prese la mano e mi guardò ammirata. Per un attimo esitò come se avesse timore di toccarmi, poi strinse la presa e raggiante rispose.
“Certo!”
“Allora se non ha impegni, l’aspetterò di fronte alla caffetteria, alle due e mezza di oggi.”
Si fece pensierosa.
“Nel caso in cui ne avesse, se non la vedrò arrivare per quell’ora, farò a meno di entrarci e l’aspetterò per il giorno successivo.”
Lasciò la mia mano e mi fissò a bocca semiaperta, quasi che mi avesse sentito parlare in una lingua sconosciuta.
“Non si preoccupi signorina, non voglio minimamente influenzare i suoi programmi o le sue scelta per questa o per le altre giornate, ma quando sarà disponibile, sappia che a quell’ora e in quel luogo mi troverà ad aspettarla.”
Arrossì.
“Verrò oggi!” esclamò con convinzione. “Oggi, di sicuro!” Si diresse verso la porta, quasi in preda alla confusione. Si inchinò come se dovesse omaggiarmi e si apprestò a congedarsi.
“Posso sapere il suo nome, prima che se ne vada?” chiesi titubante per via della non necessità del suddetto. “So che è una convenzione inutile, ma mi piacerebbe avere la possibilità di conoscerlo.”
Sorrise leggermente a disagio ed esitò per un attimo. Riconobbi che stava per mentirmi. Deglutì a vuoto ed abbassò lo sguardo.
“P – Pietro” disse infine contrita.
Sorrisi. Un nome inappropriato, ma seppi che non era quello che avrebbe voluto dire. Dal tono questo doveva essere un nome con cui veniva chiamata davvero e che la imbarazzava, ma non era una bugia.
“È un nome che significa solidità, non ha alcun motivo di vergognarsene” la rassicurai. “Magari quando si sentirà più a suo agio mi rivelerà il suo nome di battessimo ed io le svelerò il mio soprannome, se così si può definire.”
Annuì, ancora un velo di imbarazzo la imporporava. Si inchinò ancora una volta, ma risollevandosi ritrovò il sorriso puro che mi aveva riservato poco prima.
“Buona giornata” disse veloce “A più tardi.”
La guardai incamminarsi lungo lo stretto corridoio. La gonna dondolava seguendo i suoi passi. Pensai ad Ael. Avrei preferito ci fosse una spiaggia oltre la mia porta. La città era così poco adatta ad ospitarci, ad accoglierci. Non ci abbracciava come avrebbero fatto gli elementi della natura. Edoardo era l’unico tra di noi ad amarla incondizionatamente. Ad apprezzare tanto il cemento modellato quanto la terra selvaggia.

***


TERRA


“Dimmi che non puoi vivere senza di me.”
“Te lo dico, basta che dopo non ti fai più vedere.”
Altan



Zumpappà, zumpappà, zumpappà. Questo è il valzer del moscerino. Pappà. Datemi un Martello. Che cosa ne vuoi fare? Cazzi miei. Colazione arrivo. Braccio, gamba, braccio, gamba.
La via era deserta. No, no, ma io avrei voluto che lo fosse. Il martello non ce l’avevo però. Era uno di quei giorni in cui avevo voglia di spaccare tutto, ma anche di dipingere suonando. Suonare la batteria era un po’ come spaccare tutto e lanciare la vernice era un po’ come sputare sulla gente. Gli idioti non se ne accorgevano neppure. Non notavano la differenza tra quando creavo arte e quando vomitavo bile.
Michele sì, lui se ne accorgeva, sempre. Sapeva quando era meglio non piantar grane. Infatti se ne stava zitto, le mani ficcate nelle tasche, la faccia truce. Guardava avanti, solo avanti. Strizzai il pezzo di carta stropicciata nella mia misera manina. Non sarei mai riuscita a spezzare un osso con le mie ditine. Il polso avrei voluto, torcere un polso fino a spezzarlo come sapeva fare Edoardo, ma non aveva voluto insegnarmelo quell’antipatico vecchio e porco. Scopava bene, certo, tutti gli uomini scopano, perciò è importante saperlo fare bene. Eppure non sta mica tutto lì. Afferrai il braccio di Michele. Era grosso, tanto grosso rispetto alle mie braccine. Mi sentivo mini dotata. Avrei voluto che Edoardo me lo insegnasse, per poter piegare Michele, farlo cadere ai miei piedi, invece mi toccava usare le corde.
Le armi bianche, sì, quelle sì, quelle mi piacevano. Louis mi aveva regalato un pugnale. Era d’argento con il manico in avorio. Aveva detto che mi si addiceva, perché sembra elegante e sottile come me, ma è grezzo e antico. Comunque io lo volevo d’acciaio. L’argento non mi pareva così letale. Lo porto ancora nascosto nella biancheria o nelle scarpe. Non l’ho mai usato, se non per baciarlo. Amavo Louis, il mio bel demonio. Lo amo ancora. A volte però diventava troppo buono e allora me ne andavo via, per non sentirmi troppo legata a lui, responsabile della sua felicità. La felicità che non ha mai voluto avere.
Michele era un’altra cosa. Lui lo sapeva, sapeva sempre quando era il momento di stare zitto o di insultarmi. Sapeva quando avevo un bisogno fisico di violenza, quando non mi interessavano le parole dolci e le detestavo ferocemente. Sapeva quando avevo bisogno di essere abbracciata e quando di ridere. Strinsi la presa sul suo braccio caldo. Ero poco vestita, ma tanto ero sempre poco vestita. Una folata di vento mi sollevò la gonna. Sì, guardate porci, sbavate e morite.
Sinceramente? Amavo il mondo, l’ho sempre amato e lo amerò sempre. Avrebbe potuto essere un così bel posto, se solo non fosse stato insudiciato da tutte queste fastidiose formichine. Mi piacevano i palazzi e le auto, mi piacevano le comodità, ma detestavo l’uomo. Perché? Perché non lo capivo, non l’ho mai capito. Non c’è nessuna logica nei suoi comportamenti. Michele spostò il braccio, tirò fuori la mano dalla tasca e mi cinse le spalle.
“Ti amo” mormorai distratta.
“Lo so” rispose senza guardarmi, ma riuscii a vedere quel millisecondo di sorriso sulle sue labbra.
Presi a fissarlo perplessa. Perché aveva sorriso? Che avevo detto? Sapevo di avere gli occhi grandi e scuri e di sembrare una bambina cattiva. Per questo per un po’ ho pensato di uccidermi. Perché anch’io sono così, come tutti gli altri. L’unica distinzione, ciò che mi rende superiore, è che io sono schietta. Io lo ammetto, misere formichine fifone. Non c’è nessuna logica nel male, neppure nella morte. Arrivano e basta. L’uomo è il flagello del mondo e lotta, lotta, lotta, quando merita soltanto di essere ridimensionato.
Michele no, lui era diverso. A lui non andava giù di essere come gli altri. Voleva un mondo migliore. Quanto l’ho odiato per questo suo essere così ottuso. L’ho accusato di essere un bugiardo, di mentire a se stesso. Come si fa, dicevo io, a credere che sia possibile che questa gente decida di salvarsi? Come si fa a scegliere di aiutarli? Io no di certo, non l’avrei mai fatto.
Cos’aveva mai da sorridere? Lo trovavo insopportabile e frustrante. Com’era possibile che tutti lo amassero, anche se lui li trattava di merda? Non se lo meritava, ecco tutto. Doveva arrendersi all’evidenza di essere come tutti gli altri e restare con me.
Louis, il mio angelo caduto, lui compariva ogni volta che ne avevo bisogno.
Ogni volta che Michele si volatilizzava.
Mi baciò i capelli, arruffati dal vento. I riccioli mi coprivano la vista. Feci una smorfia. Quanto lo odiavo Michele e quanto lo amavo. Avrei voluto soffocarlo con un cuscino nel sonno. Era un pensiero fin troppo delicato per me, che adoravo il sangue e il suo sapore, adoravo tessere scenari apocalittici fatti di corpi straziati, eppure per non dover piangere la sua morte mi sarei tagliata la gola con il pugnale d’argento. Un giorno gliel’avevo anche detto che se fosse morto mi sarei uccisa, perché che senso avrebbe avuto vivere se lui non c’era più? Sarebbe stato tutto così deprimente. Un po’ alla volta scoprii che per lui non era lo stesso. Avrebbe continuato a vivere. Non si sarebbe fermato per me, per nessuno. Fu allora che cominciai a guardarlo con sospetto. Poco dopo se n’era andato.
Lo spintonai bruscamente, ma non si mosse di un millimetro. Mi rivolse uno sguardo seccato.
“Che fai, cretina?” domandò scorbutico.
“Lasciami” replicai acida “Non toccarmi, schifoso maniaco.”
Scoppiò a ridere e mi strinse più forte.
“Non rompere, piccola zoccola” rispose a tono, ma era divertito.
Digrignai i denti. Certo, magari la colpa era mia, che ero fatta così, ma me l’avrebbe pagata. Lo spintonai ancora e con una mano cercai di strizzargli le palle. Ricambiò con la stessa moneta, ma riuscii a tirargli un ceffone e lui di rimando mi rifilò un calcio sul didietro, facendomi finire tre passi avanti a lui.
“Mi hai stufato, non voglio più vederti!” gli strillai contro, accelerando il passo.
Mi afferrò per il collo della maglia e mi tirò indietro.
“Scema, siamo arrivati” disse abbracciandomi.
“Lasciami, ti ho detto!” strillai ancora.
“Guarda quella, che culone” fece indicando col dito una che ci passava accanto. La donna gli scoccò uno sguardo furente ed io non riuscii a trattenermi e scoppiai a ridere. “Lo sai che ti amo, vero?” chiese allegro.
“Se, come no” risposi, tornando ad ancorarmi al suo braccio. “Perché sei una troia.” Sorrisi e cercai di cacciargli due dita nel naso.
Non si spostò neppure, ormai ci era abituato e se lo lasciò fare.
“Che schifo” mi lamentai, cercando di pulirmi sulla sua maglia, ma ridevo di nuovo.
Mi prese per mano e mi trascinò davanti al tabacchi. Entrò, lasciandomi fuori ad aspettare, ma quando ne uscì una troietta gli stava appresso. Poco importava che fosse passabile, a lui comunque andava bene tutto, persino le vecchie e gli uomini. La ragazza mi guardò quasi ammirata, rovinandomi la visione del suo omicidio a mani nude.
“Per favore, si tratta solo di qualche domanda” disse implorante. Stringeva una cartelletta tra le braccia e in mano una penna.
Michele si fermò e sbuffò svogliato.
“Sentiamo” disse controvoglia.
“Lei fuma?”
“Secondo te?” replicò, mostrandole il pacchetto che stringeva nella mano.
“Quale marca?”
“Lucky Strike.”
“Proverebbe le Camel?”
“Già fatto.”
“Pensa di comprarle oggi? Beh, no, immagino di no.” Si rispose da sola, notando la sua espressione infastidita. “Perché ha smesso di acquistarle?” riprese veloce.
“Perché sanno di piscio” mi intromisi, sfoggiando una smorfia schifata. La ragazza mi guardò confusa. “Però a me piacciono” aggiunsi con un sorriso.
Annotò rapida le risposte sul foglio.
“Senti, ma che cos’è quella cosa?” chiesi curiosa.
“È un questionario per l’azienda, un sondaggio” mi spiegò un po’ annoiata.
“Ma non è una cosa psicologica?” la scrutai minacciosa.
“No, no!” agitò la cartelletta in aria, come a nascondersi dal mio sguardo.
“Fa’ la cuccia Ofelia” mi intimò Michele. “È tutto?” le chiese spazientito.
“S – sì” balbettò la zoccoletta. “Grazie e scusatemi per il disturbo.”
“No che non ti scusiamo” replicai accigliata. “Perché dovremmo?”
Michele ridacchiò. “Ofelia” disse quindi con tono di rimprovero. “Figurati, per così poco” aggiunse sorridendole.
Lo colpii con una gomitata sul fianco e presi a camminare spedita verso la caffetteria, tanto il buono ce l’avevo io. Quanto lo detestavo! Smetteva di essere scorbutico soltanto quando pensava di dover rimediare ai miei guai, era una cosa che proprio non sopportavo.

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